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Morire di niente – Contro l’ideologia dell’anoressia mentale

E la società artificiale, da reinventare ciascuna volta, esige l’Altro come ospite e non come nemico, e si dissipa così la credenza nel terzo escluso, quello che – secondo il razzismo – se non fosse eliminato si papperebbe la parte degli inclusi. L’anoressia esige la tolleranza intellettuale.

 

(1.10.2001) 

In un mondo che sogna la sostanza estesa a tutte le cose, ovvero l’altra faccia di Dio ma senza più fantasma dell’assoluto, in una soluzione facile che tutti cercano di accaparrarsi, di spartirsi, di accumulare, insomma in un’orgia cannibalica infinita che segmenta la società in bande, in clan, in fazioni armate, in mafie sanguinarie o in maniche bianche, sempre sperando di aumentare la fetta di torta della grande abbuffata della vita, può sembrare rivoluzionario rifiutare d’ingoiare la stessa zuppa.

Fulvio Caccia, « Sans titre », 1989, pastelli su carta, cm50 x 70

È il grande « no » delle indomabili, da Santa Caterina da Siena alla principessa Sissi, da Antigone a Simone Weil, ma anche di tante senza nome. I cifrari statistici degli Stati Uniti contano duecentomila casi di anoressia, contro più di un milione di bulimia. E quindi contro il numerario quantificante che spiana ogni analisi qualitativa dell’anoressia, anche noi saremmo tentati di dire basta, di rifiutarci di mandar giù delle spiegazioni che sono solo a misura della bulimia degli specialisti, che sul disagio degli altri imbastiscono altruistiche fabbriche di riproduzione di quella stessa sostanza che l’anoressia rifiuta.

Invece occorre elaborare sia il discorso anoressico, sia quello bulimico, e pure le varie mitologie sociologiche, psicologiche, psichiatriche, psicanalitiche, antropologiche, biologogiche, sessuologiche… come quella che tende a dimostrare un collegamento tra l’insorgenza dell’anoressia con forme latenti di omosessualità. Già Freud nella sua analisi del caso del presidente Schreber aveva sottolineato che la cosiddetta omosessualità è un dettaglio che si articola nella struttura e non l’inverso. Non è quindi il caso oggi di fondare su questa « bufala » nessuna macelleria dell’anima.

L’anoressia rifiuta tutto perché anche la più piccolissima parte potrebbe reintrodurla a quel tutto che cerca di sfuggire. Come può ammettere le varie forme di intervento sostanziale quando è la sostanza stessa che rifiuta? Comme trattare l’anoressia che fa dell’intrattabile il suo sintomo sino a morire di niente? Non c’è nessun sapere da opporre all’anoressia, che ha, per dir così, une ricerca matematica molto più avanzata degli analfabeti o alfabetizzati che vorrebbero curarla. Anche perché l’anoressia non è mentale, non è attribuibile all’Altro per evitarne l’elaborazione quando si presenta come questione.

L’anoressia dice una cosa impensabile per il luogo comune: dice che non c’è un tutto originario da cui procedono le cose, non c’è una sostanza piena da dividere equamente ma che in principio c’è il niente. Niente da appetire, questo è l’etimo di anoressia. L’anoressia dice che gli umani non sono cannibali, ma dispositivi di vita poetica, da inventare, e che il nutrimento è intellettuale e non sostanziale. Il cibo degli angeli, così lo chiamava Santa Caterina da Siena.

Cordelia, la figlia del re Lear, nell’omonima tragedia di Shakespeare, risponde « niente » alla domanda assurda del padre per strappare una parte più opulenta di quella delle sorelle. Cordelia non vuole prendere parte. « Ma niente viene dal niente » risponde re Lear, che esplora altri elementi dell’algebra della vita: lui che passa dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo, dal re all’uno solo, facendo sua la domanda di Regana: « A che serve uno solo? » Così non solo Cordelia muore di niente ma anche re Lear che sprofonda nella nientificazione. A nulla vale l’istigazione del buffone quando irride il teorema algebrico che sorregge la vita di Lear, indicandogli la via paradossale per la quale: « avrai più di due decine per una ventina ». Eppure nella sua pazzia re Lear si pone la questione dell’altra vita, quella che non abbisogna della macelleria umana: « e riprenderemo il mistero delle cose / Come se fossimo spie di Dio ». Qui ritorna la figura dell’assoluto, ma come garante della coppia padre e figlia che contempla « in una murata prigione, masnade e sette di grandi / che fluiscono e rifluiscono sotto la luna ». Re Lear vede le bande, le sette, le cricche, facendo banda a due in una prigione. Mentre l’anoressia fa banda da sola e chiede ben altro a Dio, come testimonia Simone Weil: « Mio Dio, accordami di divenire niente », senza macchia della sostanza malefica e di morte che infetta il mondo.

L’anoressia mentale muore di niente per un un postulato algebrico contro l’algebra: contro l’algebra dell’opulenza afferma di poter vivere di niente. Ma l’algoritmo dell’anoressia mentale è un postulato di morte, come precisa Simone Weil: « Per essere giusto, bisogna essere nudo e morto ».

Che cosa rivendica l’algebra anoressica? Il diritto di tagliare, di dividere, di fare a pezzi la vita sino a diventare niente per garantirsi contro la morte. Il diritto di essere morto in vita per essere giusto. Il diritto di essere morto per essere in vita. Insomma l’anoressia cosiddetta mentale rivendica la stessa macelleria umana che rifiuta al mondo.

Algebra infatti è una parola di derivazione araba, che significa riduzione, taglio, sezione, e che originariamente era una pratica chirurgica per rimettere apposto gli arti slogati, e che poi ha preso il senso di riduzione matematica, secondo l’invenzione del matematico Hwarizmi del IX secolo.

L’anoressia mentale vuole dimostrare l’anoressia intellettuale, l’inesistenza della sostanza, il principio del niente, l’altro cibo, l’aria, il sogno. E in questa dimostrazione perisce per evitare il niente, il sogno, la leggerezza…, per la purezza algebrica di un incubo contro la vita. Le cose non procedono dalla prigione murata, dalla stanza senza finestra, senza sogno, senza cielo, senza paradiso. Le cose procedono dall’apertura, e il niente è un pleonasmo che si staglia sul caos originario, sullo spalancamento (è l’etimo di caos) delle cose.

Un niente da vedere, un niente da mangiare… Eppure indispensabile. Con l’articolazione del niente si vanifica la credenza nella mentalizzazione dell’anoressia. Si vanifica pure la supposta necessità nelle terapie applicate, giacché l’effetto di terapia risiede nella stessa articolazione, e in una scommessa di vita che nulla più deve dare in pasto al cannibalismo dell’epoca. Nessuno può togliere il niente dalla parola e rimpiazzarlo con una sostanza, ora rimedio ora veleno, come propone la società dello spaccio del luogo comune. L’ironia estrema della sorte che le guerre, i massacri e gli sterminii non riescono a cancellare, è quella che i più, se non tutti, sono morti per niente, nonostante quello che vorrebbero far credere le istoriografie ufficiali e ufficiose.

Non « per niente » ma « per il niente » gli umani vivono d’aria, di superfluo, di sogno e di dimenticanza. E la società artificiale, da reinventare ciascuna volta, esige l’Altro come ospite e non come nemico, e si dissipa così la credenza nel terzo escluso, quello che – secondo il razzismo – se non fosse eliminato si papperebbe la parte degli inclusi. L’anoressia esige la tolleranza intellettuale.

(« Helios », n. 3, 1996)