L’illetteratismo : democrazia a rischio
di Benedetto Vertecchi
Se ci si limitasse ad assumere come riferimento la nozione più consueta di istruzione formale si dovrebbe concludere che, in Italia come negli altri paesi industrializzati, tale istruzione costituisce ormai una realtà diffusa: bambini e ragazzi di tutte le classi sociali fruiscono di un lungo periodo di educazione scolastica, nel corso del quale acquisiscono i fondamenti di una cultura comune. I dati statistici sulla fruizione del servizio scolastico porterebbero alla medesima conclusione, ma solo se si prendessero in considerazione i soli dati di stock, relativi cioè alla descrizione quantitativa dei fenomeni. Vedremo, invece, che la questione è più complessa: quello dell’istruzione formale è un problema tutt’altro che risolto. Anzi, proprio negli ultimi decenni si sono presentate tendenze nell’evoluzione dei profili culturali delle popolazioni dei paesi industrializzati che richiedono una specifica attenzione.
Negli ultimi mesi del 1999 il Cede (Centro Europeo dell’Educazione, del quale era in corso la trasformazione in Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema dell’Istruzione) diffuse alcuni dati relativi allo stato della cultura della popolazione italiana adulta, con specifico riferimento alla consistenza residua dell’analfabetismo. Dai dati del Cede emergeva che gli analfabeti in Italia erano ancora più di due milioni (figura 1), due terzi dei quali d’età superiore ai 45 anni (figura 2). Emergeva anche che, in gran parte, gli analfabeti vivevano nelle regioni del Sud e nelle Isole, mentre nel Nord e nel Centro era ormai abbastanza eccezionale trovare persone con meno di 45 anni che non possedessero qualche rudimento di capacità di lettura e di scrittura (figura 3). I dati sulla consistenza dell’analfabetismo erano stati rilevati nell’ambito della partecipazione italiana ad una grande indagine internazionale promossa dall’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), il cui scopo era di stabilire, per ciascun paese partecipante, il livello della competenza alfabetica della popolazione adulta d’età compresa fra i 16 e i 65 anni. Si trattava dell’International Adult Literacy Study (Ials): una prima indagine era stata effettuata in una decina di paesi, fra i quali gli Stati Uniti, e i relativi risultati erano noti da alcuni anni. È seguita poi una seconda indagine (Sials, in cui l’iniziale dell’acronimo sta per Second), alla quale ha partecipato anche l’Italia. I dati italiani sono stati resi pubblici nel maggio del 2000; quelli internazionali il mese successivo.
Non si debbono confondere i dati sull’analfabetismo con quelli che riguardano il livello della competenza alfabetica, anche se è evidente che il limite inferiore della competenza alfabetica è difficilmente distinguibile dall’analfabetismo. Occorre, infatti, tener presente che in un caso, quello dell’analfabetismo, ci si trova di fronte ad una deprivazione originaria della capacità di leggere e scrivere, mentre un basso livello di capacità alfabetica si può riscontrare anche in persone che abbiano fruito di un numero considerevole di anni d’istruzione scolastica. Sia socialmente, sia culturalmente i due insiemi, quello degli analfabeti e quello costituito da persone con basso livello di competenza alfabetica, sono differenti.
L’analfabetismo originario è generalmente collegato a condizioni economiche fortemente svantaggiate, subite negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, mentre ad un basso livello di competenza alfabetica può corrispondere anche un livello di reddito relativamente alto, tale in ogni caso da non costituire ostacolo alla frequenza della scuola. Nella maggioranza dei paesi industrializzati, ed è questa la principale indicazione derivante dalle ricerche Ials e Sials, sono state rilevate tendenze recessive nella competenza alfabetica, che seguono al sostanziale superamento dell’analfabetismo originario: i due fenomeni si presentano perciò ben distinti, come espressione di fasi successive d’evoluzione del quadro socioculturale. Non è così in Italia, per le ragioni che vedremo.
In Europa la tendenza alla generalizzazione della frequenza scolastica, per un tempo sufficiente ad acquisire la capacità di leggere e scrivere, si è affermata nel corso dell’Ottocento, anche se isole di alfabetismo erano già presenti, in particolare nelle aree in cui più forte era stata l’incidenza della riforma protestante. In quelle aree, una certa competenza alfabetica era venuta costituendo parte del profilo del cristiano, perché condizione per l’esercizio del libero esame dei testi biblici. Si deve tuttavia alle profonde trasformazioni che hanno investito l’Europa a partire dalla rivoluzione industriale il manifestarsi di un’esigenza di istruzione tale da modificare sostanzialmente il quadro culturale dei diversi paesi. Disporre di competenze alfabetiche diventava una condizione necessaria per l’esistenza a misura del passaggio da economie prevalentemente agricole ad economie industriali, da assetti prevalentemente frazionati e rurali della popolazione alla sua concentrazione in spazi urbani, dalla famiglia patriarcale a quella nucleare. Il diffondersi dell’istruzione ha costituito parte importante del processo di modernizzazione delle società europee, fino a diventare un simbolo del riscatto dalla marginalità sociale. All’istruzione si è collegata un’idea di progresso, che trovava concreta espressione nel miglioramento delle condizioni vita. La scuola ha diffuso l’alfabeto, ma contemporaneamente è stata promotrice della medicina sociale, dell’igiene, della razionalità dei comportamenti in opposizione a pratiche ripetitive e fondamentalmente superstiziose.
In Italia, l’analfabetismo rappresentava la condizione dominante nel 1861, l’anno della costituzione dello stato unitario. La trasformazione culturale del paese è stata imponente, anche se non uniforme, nel mezzo secolo successivo. In alcune aree del paese, specialmente nel Nord, la rete delle scuole elementari era già abbastanza estesa agli inizi del Novecento. La scolarizzazione ha investito prima le città, ma immediatamente dopo anche le campagne, grazie all’impegno di moltitudini di maestri, e soprattutto di maestre, che hanno assicurato una prima istruzione anche alla popolazione rurale e a quella dei territori montani. Quelle maestre, il cui ruolo nella modernizzazione del paese è stato determinante e mai abbastanza considerato, non diffondevano solo la cultura alfabetica, ma anche modelli di comportamento propri della cultura urbana in un paese ancora prevalentemente rurale. Conviene ricordare che la seconda metà dell’Ottocento ha visto anche le prime affermazioni della psicologia, della sociologia, della pedagogia sperimentale, dell’antropologia, in breve delle scienze dell’uomo. La crescita della scuola e l’affermazione dell’alfabetismo si collocavano quindi in un quadro, fortemente influenzato dal pensiero del positivismo, caratterizzato dall’attesa ottimistica di migliori condizioni d’esistenza come effetto dello sviluppo scientifico.
La cultura educativa italiana, così come i criteri cui si ispirava la politica scolastica, sono apparsi, fino agli inizi del Novecento, sostanzialmente allineati con le posizioni che venivano emergendo nel resto d’Europa (ma anche negli Stati Uniti). Tale allineamento è venuto meno nel corso del Novecento, con l’affermarsi della cultura dell’idealismo e per effetto di scelte di politica scolastica che, pur non potendola del tutto contrastare, hanno rallentato la crescita della scolarizzazione. Le conseguenze dell’idealismo e della politica scolastica del fascismo, la cui espressione più significativa si è avuta con la riforma del 1923, si possono ora rilevare attraverso la comparazione delle differenze che si sono verificate nella quantità e nella qualità dell’offerta d’istruzione in Italia e in altri paesi industrializzati. Dopo la seconda guerra mondiale, mentre nella maggior parte dei paesi si era già consolidata o si andava generalizzando l’offerta d’istruzione nella prima parte della scuola secondaria, in Italia permanevano ancora quote consistenti di popolazione analfabeta. Solo dopo la riforma della scuola media, approvata dal Parlamento alla fine del 1962 e gradualmente attuata a partire dall’anno successivo, si è incominciato a dare effettivo seguito al diritto all’istruzione per otto anni, e solo nel decennio successivo si è avuto un decisivo ampliamento della quota di popolazione che ha potuto fruire dell’istruzione secondaria.
Non dovrebbe quindi costituire una sorpresa rilevare che oggi sono ancora più di due milioni gli adulti, fra i sedici e i sessantacinque anni d’età, che debbono essere compresi fra gli analfabeti. Basta analizzare, infatti, come l’analfabetismo appaia distribuito per fascia d’età: il fenomeno è molto esiguo nella popolazione che ha meno di quarantacinque-cinquant’anni, mentre è ancora piuttosto pesante nella popolazione più anziana. E ciò vuol dire che sono ancora numerosi gli analfabeti nella parte di popolazione che era in età scolastica prima della riforma della scuola media. Da questa constatazione derivano alcune conclusioni. La prima è che la riforma della scuola media, al di là di quanto si potrebbe osservare su questo o quell’aspetto delle innovazioni introdotte, ha prodotto l’effetto che da essa si attendeva, e cioè ha attivato un processo di trasformazione radicale della cultura della popolazione. La seconda conclusione è che tuttavia tale processo è molto lento, se a quasi quarant’anni di distanza si conta ancora un numero così elevato di adulti che sopporta le conseguenze della deprivazione originaria. La terza è che oggi gli effetti dell’istruzione scolastica debbono essere considerati, in conseguenza del rapido incremento della durata media della vita, in una prospettiva temporale molto più lunga di quanto non fosse necessario fare fino a pochi decenni fa. La quarta considerazione, infine, riguarda l’efficacia limitata delle riforme scolastiche in assenza d’interventi paralleli volti a modificare la cultura della popolazione adulta.
La persistenza di un numero elevato di analfabeti nelle fasce più anziane della popolazione costituisce dunque un fenomeno italiano, che si sovrappone ad una nuova e per molti versi inattesa mancanza di capacità alfabetica, quella che si presenta nel corso della vita in persone che pure hanno fruito di un numero, anche consistente, di anni d’istruzione nella scuola. Alcuni designano questo fenomeno analfabetismo di ritorno, ma a me sembra che l’espressione sia fonte d’ambiguità, perché induce a confondere, se non sul tempo, certo nella forma in cui si presenta, la carenza originaria di competenza alfabetica con l’incerta condizione culturale che si sta rapidamente diffondendo nella popolazione adulta. Nelle ricerche comparative (come nella già ricordata ricerca Ials, e nella successiva ricerca Sials, la cui metodologia è stata definita da Statistics Canada), il fenomeno viene rilevato utilizzando una scala di competenza articolata in cinque livelli, dei quali il quinto corrisponde al possesso compiuto della capacità di comprendere e formulare un messaggio scritto e il primo alla condizione contraria. Chi si colloca al primo livello pertanto può anche avere qualche rudimento di competenza alfabetica (per esempio, può essere in grado di tracciare la sua firma o di riconoscere l’insegna di un negozio), ma non è capace di utilizzare il linguaggio scritto per produrre o ricevere messaggi che richiedano una sia pur modesta organizzazione del discorso. Un’impostazione solo parzialmente diversa è quella che si riconosce nella scala di competenza messa a punto in Francia dall’Observatoire National de la Lecture: in essa si distingue un primo livello di analfabetismo vero e proprio, cui segue un secondo livello, nel quale si collocano quanti non sono in grado di andar oltre la lettura di qualche parola isolata. La terza posizione riguarda quanti riescono a leggere qualche frase isolata, purché semplice. Per raggiungere il quarto livello bisogna dimostrare di saper ricavare almeno qualche informazione dal testo che si è letto. Infine, il quinto livello corrisponde alla capacità di leggere e capire un testo scritto. Quel che impressiona, sia dai dati ottenuti attraverso le ricerche Ials e Sials, sia da quelli diffusi dall’Observatoire francese, è l’alto numero di persone, anche di giovane età, che si colloca nelle posizioni inferiori della scala.
Secondo l’Observatoire, da una ricerca condotta su più di 350.000 giovani (solo maschi) d’età compresa fra i 18 e i 23 anni è risultato che gli analfabeti sono l’1%, il secondo livello comprende il 3% dei giovani sui quali la rilevazione è stata effettuata, il 4% si colloca al terzo livello e il 12% al quarto. In altre parole, circa un quinto dei giovani francesi appare ad alto rischio alfabetico, pur avendo lasciato la scuola da pochi anni. Questo fenomeno in francese è indicato come illettrisme; la parola corrisponde all’inglese illiteracy, cioè all’assenza della literacy, che è la capacità di usare il linguaggio scritto. Anche in italiano converrebbe, per chiarezza, distinguere l’analfabetismo (che corrisponde all’assenza di un sia pur minimo repertorio tecnico di lettura e scrittura) dall’illetteratismo, che non esclude qualche rudimento tecnico, ma designa soprattutto la condizione di chi non è in grado di servirsi del linguaggio scritto per ricevere o per formulare messaggi. Non si tratta di introdurre un neologismo per calco, ma di riprendere una parola (letterato o litterato) che in un significato arcaico designa appunto chi sa leggere e scrivere.
I dati delle ricerche Ials e Sials non sono più confortanti di quelli francesi. Se consideriamo la situazione nella maggior parte dei paesi industrializzati (fra i quali gli Stati Uniti, il Canada, il Regno Unito, l’Irlanda, l’Australia, la Nuova Zelanda), troviamo che la popolazione ad alto rischio alfabetico, quella che si colloca al primo livello della scala di letteratismo, è compresa fra un ottavo e un quarto del totale; se aggiungiamo anche un medio rischio alfabetico (secondo livello) in più casi si raggiunge e si supera il 50% della popolazione (figura 4). Dai dati Sials relativi all’Italia si ricava che gli adulti che si collocano al livello 1 sono circa un terzo, e che un altro terzo si colloca al livello 2: in altre parole, circa due terzi della popolazione tra i 16 e i 65 anni può essere considerata a rischio alfabetico, alto e medio (figura 5). Quella che viene configurandosi è una tendenza forte nell’evoluzione delle caratteristiche della popolazione, che non può che espandersi ulteriormente perché collegata a cambiamenti profondi nelle condizioni di vita, a meno che non sia esplicitamente contrastata da una politica culturale capace di affermare modelli alternativi.
C’è da chiedersi quali siano le ragioni che stanno inducendo il fenomeno dell’illetteratismo. Una prima spiegazione può essere rappresentata dal venir meno, o comunque dall’attenuarsi, per una frazione crescente della popolazione, della funzione di rinforzo che fino a non molti anni fa le condizioni della vita sociale esercitavano nei confronti delle competenze alfabetiche (come anche di quelle di calcolo). Leggere e scrivere erano competenze necessarie per comunicare, per prendere appunti, per informare e per essere informati. Oggi il telefono, i registratori audio e video, le icone, la radio e la televisione, le macchine per il calcolo automatico hanno fornito soluzioni alternative a molte delle esigenze che in precedenza richiedevano di leggere, scrivere e far di conto. Ne deriva che tali capacità decadono rapidamente in quella parte della popolazione che non ha occasioni, nella vita professionale, di utilizzarle. Ovviamente, ciò non significa che le competenze alfabetiche (come quelle che comportano operazioni con simboli) debbano essere utilizzate solo nella vita professionale: leggere un romanzo, un saggio o un articolo di giornale di per sé non sono attività professionali. La questione diventa allora quella di sostituire alla spinta, in larga parte utilitaristica, che ha animato la prima alfabetizzazione una nuova finalizzazione, per la quale le competenze non siano solo funzionali all’uso che si prevede di farne nella vita professionale, ma siano considerate necessarie per fruire di un patrimonio immateriale, com’è quello della letteratura, dell’arte, del pensiero, della scienza.
Nei paesi industrializzati, all’attenuarsi della spinta utilitaristica, ha fatto riscontro una tendenza alla divisione della popolazione in strati: quelli favoriti si distinguono per un livello elevato di cultura alfabetica, mentre per gli altri ha prevalso una deriva consumistica, genericamente socializzante e moralizzante, ma certamente incapace di assicurare l’interiorizzazione profonda della strumentazione necessaria per fruire del patrimonio della cultura. Quella che sta emergendo in molti paesi è una dicotomia, che vede da un lato una casta di nuovi mandarini, il cui riferimento culturale è solidamente alfabetico, e dall’altro una maggioranza della popolazione sospinta ai margini della fruizione culturale. La novità consiste nel fatto che tale maggioranza non è più composta solo da emarginati, ma in larga misura da persone che partecipano ampiamente ai benefici dello sviluppo economico, anche se questi ultimi sono limitati all’esercizio di un’elevata capacità di consumo. Se l’alfabetizzazione e il prolungarsi del tempo dell’istruzione scolastica si sono per lo più connotati in senso democratico, assume il significato contrario l’attuale tendenza al manifestarsi dell’illetteratismo.
Le riforme scolastiche pssono costituire una contraddizione reale rispetto alla tendenza verso l’illetteratismo se, accanto al rinnovamento delle strutture, riescono a porre le premesse per una trasformazione della cultura della popolazione. Dalle rilevazioni del Cede emerge che c’è voluta più di una generazione dalla riforma del 1962 perché nella parte più giovane della popolazione, quella al di sotto dei 45 anni, potesse considerarsi superato il problema dell’analfabetismo originario. È dubbio che la riforma promossa dal governo della Destra possa far proseguire nel percorso virtuoso che ha condotto alla trasformazione del profilo culturale della popolazione italiana: è più probabile che la logica utilitaristica alla base della divisione precoce dei destini educativi degli allievi rafforzi la tendenza prima individuata, ossia quella che vede contrapposta una parte della popolazione dotata di solide competenze alfabetiche ad una il cui profilo culturale si caratterizzi progressivamente per la tenuità del repertorio simbolico disponibile.
Per seguire una via di progresso nell’istruzione occorre delineare è un profilo della cultura della popolazione, a realizzare il quale concorrano interventi che si distribuiscono lungo l’arco della vita. Sappiamo che sui risultati che si conseguono nella scuola hanno incidenza sia l’azione della scuola stessa, sia i condizionamenti che derivano dal contesto della vita sociale. Intervenire sugli anziani, sui genitori non può che avere un effetto di accelerazione nel raggiungimento di nuovi obiettivi culturali. Stabilire una relazione positiva tra l’esperienza che bambini e ragazzi effettuano nella scuola e quella che si propone alle generazioni adulte va considerata una condizione perché si conservi e si accresca la competenza alfabetica. Agli adulti debbono essere rivolte proposte che si qualifichino specificamente per il loro carattere di istruzione: imparare a tutte le età è una reale condizione per la vita democratica.
Dai dati della ricerca Sials è lecito inferire che larga parte della popolazione adulta dispone di repertori verbali di scarsa consistenza. Non solo: molti segni lasciano intendere che il lessico disponibile per una larga parte della popolazione sia in contrazione ulteriore. Anche senza evocare lo scenario della neolingua di Orwell, si può facilmente convenire sull’importanza della disponibilità di lessico per la definizione di profili culturali che si caratterizzino per un libero esercizio del pensiero, per la capacità di comprendere la complessità del mondo contemporaneo e di essere soggetti attivi nel confronto politico: in breve, per un’effettiva partecipazione alla vita democratica. Quel che dalle ricerche Ials e Sials emerge con evidenza è che la scolarizzazione, almeno per il modo in cui si è storicamente sviluppata, non costituisce più una condizione sufficiente per assicurare ai cittadini delle società democratiche il corredo di competenze fondamentali di cui hanno bisogno.
In Italia, per le ragioni che sono state ricordate, il confronto fra i livelli di letteratismo delle generazioni più anziane con quello delle generazioni più giovani si risolve a vantaggio di queste ultime (figura 6). Ciò indica che, nel complesso, l’azione della scuola è stata efficace. Non è facile, tuttavia, distinguere quanto del risultato negativo che si continua a rilevare nelle fasce d’età più giovani (16-25 e 26-35 anni) sia da attribuirsi ad un’insufficienza dell’offerta scolastica e quanto all’emergere anche in Italia delle medesime tendenze regressive nel letteratismo che si rilevano in altri paesi industrializzati. In effetti, se si confrontano le tendenze in atto in Italia con quelle rilevate in un paese, come gli Stati Uniti, i cui dati possono assumere un valore di riferimento, si osservano differenze importanti (figure 7 e 8). Negli Stati Uniti si rileva un incremento dei livelli di letteratismo passando dalla fascia di popolazione tra i 56 e i 65 anni e quella tra i 36 e i 45 anni, mentre la tendenza si rovescia per la fascia più giovane, rivelando una consistente regressione delle capacità alfabetiche. In Italia, si osserva un aumento costante dalla fascia più anziana a quella più giovane delle percentuali di popolazione comprese nei livelli 3 e 4-5: sembrerebbe quindi che, almeno per ora, la regressione illetterata non investa la popolazione. In realtà, è possibile, dai medesimi dati, giungere anche ad una conclusione diversa. Rispetto alla distribuzione dei livelli di competenza rilevati nella fascia più anziana, l’incremento più sensibile si ha nella fascia 4-5. Più incerto è, invece, l’andamento del livello 3, che è in vivace ascesa passando dalla fascia più anziana a quella intermedia, ma in aumento molto meno sensibile nella fascia più giovane. Ed è proprio questo che preoccupa. L’incremento della popolazione al livello 4-5 può essere, infatti, collegato con lo sviluppo quantitativo dell’istruzione universitaria, mentre quello del livello 3 non sembra riflettere in modo altrettanto evidente l’espansione che si è avuta nell’istruzione secondaria. Si può pensare, pertanto, che i problemi del letteratismo in Italia siano da interpretare come una contaminazione tra fattori scolastici e non scolastici: questi ultimi, considerando la crescita di popolazione della scuola secondaria, sembrano riguardare in misura più consistente le fasce d’età più giovani.
Anche assumendo, comunque, una qualità dell’istruzione scolastica migliore di quella effettivamente disponibile, si avrebbe, in assenza di una politica di manutenzione delle competenze acquisite, una possibilità solo parziale di contrastare la regressione del letteratismo. Dalle indagini Ials e Sials viene confermata, infatti, un’interpretazione complessa del sistema educativo, per la quale il profilo culturale della popolazione (nel complesso, nelle specifiche fasce d’età e nei singoli soggetti) non può essere spiegato come effetto di una causalità lineare riferibile principalmente alla scuola, ma piuttosto come una condizione instabile, i cui caratteri appaiono correlati al modificarsi di una quantità di condizioni di contorno. In altre parole, gli interventi sulla scuola modificano solo parzialmente e in modo transitorio il profilo della popolazione, perché sia sulla loro efficacia nella prima parte della vita, sia sulla persistenza dei messaggi trasmessi incidono numerosi altri fattori, culturali e affettivi, di origine sociale.
Costatare che ciò che si apprende a scuola permane solo per un certo tempo, e che si perde la memoria di quanto non sia confermato da esigenze o esperienze successive, non costituisce una novità. Agli inizi degli anni Sessanta Jean Piaget si chiedeva, ed è una domanda sempre attuale, che cosa restasse degli apprendimenti scolastici dopo cinque, dieci, vent’anni. La novità semmai consiste nell’estendersi della decadenza degli apprendimenti da campi specifici della conoscenza (la storia o la chimica) a componenti fondamentali della competenza culturale, come sono quelle alfabetiche. È una novità che pone seriamente in crisi un criterio generalmente accettato, anche se implicito, dell’istruzione scolastica, e cioè che da una quantità sovrabbondante di acquisizioni volatili derivi comunque un effetto di trasferimento capace di stabilizzare le competenze di base. Ebbene, le ricerche Ials e Sials dimostrano che ciò non è più vero e che anche l’effetto di trasferimento è soggetto a decadenza, in tempi sempre più brevi. Di conseguenza, occorre rivedere i criteri sui quali si fonda l’istruzione nella scuola, ma occorre anche un’azione sistematica che si sviluppi dopo la scuola, al fine di conservare integro e, se possibile, di accrescere il repertorio delle competenze di base, anche aggiornandolo in funzione di nuove esigenze.
Dal punto di vista scolastico, una prima approssimazione potrebbe consistere nel considerare le possibilità d’apprendimento corrispondenti ad un momento determinato del percorso (Z) come il risultato del prodotto di due fattori, dei quali il primo si riferisce all’estensione (X) e il secondo all’approfondimento (Y). Avremmo pertanto
XY = Z
in cui il valore di Z è soggetto a variazioni abbastanza modeste, mentre al crescere di X corrisponde una diminuzione di Y e viceversa. Nel corso del Novecento si è assistito, se non altro come conseguenza dello sviluppo della ricerca scientifica e tecnologica, ad un forte incremento di X, ossia ad una dilatazione dei programmi d’insegnamento per comprendere in essi sempre nuovi elementi di conoscenza. Ne è conseguita l’attenuazione della Y, con la conseguenza di porre gli allievi di fronte ad una gamma sempre più ampia di campi della conoscenza, senza tuttavia che a tale maggiore estensione corrispondesse un’effettiva varietà di esperienze di apprendimento, in termini di qualità delle operazioni da effettuare. In pratica, si sono insegnate più cose, ma ad un livello più superficiale. Se accettiamo l’ipotesi che l’effettiva interiorizzazione di determinate competenze si associ al livello di approfondimento delle conoscenze, si giunge alla conclusione – valida dal punto di vista della scuola – che la selezione delle proposte di apprendimento produce migliori condizioni per la conservazione delle competenze, perché corrisponde ad un’interiorizzazione più solida. Ed è questa una condizione importante per continuare ad apprendere nel successivo corso della vita, ma anche per dar significato alla partecipazione dei cittadini alla vita democratica.
Benedetto Vertecchi
Figura 1. La distribuzione per area geografica degli analfabeti pone in evidenza che il fenomeno presenta una particolare gravità nelle regioni del Sud e nelle Isole (fonte: Cede).
Figura 2. Circa due terzi degli analfabeti hanno più di 45 anni. La popolazione di età inferiore ai 45 anni ha frequentato la scuola dopo la riforma del 1962 (fonte: Cede).
Figura 3. L’analfabetismo è quasi assente nella popolazione con meno di 45 anni dislocata nel Nord e nel Centro. Presenta invece una certa consistenza nella popolazione del Sud e delle Isole. Un piano di interventi rivolti alla popolazione adulta potrebbe assicurare condizioni più positive per il successo della riforma dei cicli (fonte: Cede).
Figura 4. Percentuali di popolazione comprese nel primo e nel secondo livello della scala Ials (fonte: Ocse).
Figura 5. Livelli di competenza alfabetica della popolazione italiana d’età compresa fra i 16 e i 65 anni.
Figura 6. Livelli di competenza alfabetica della popolazione italiana per fasce d’età. L’effetto della scolarizzazione è evidente, se si osserva la riduzione delle percentuali di popolazione al livello 1 e l’aumento di quelle relative ai livelli 3 e 4-5.
Figura 7. Evoluzione del letteratismo nella popolazione degli Stati Uniti. Notare la stagnazione del livello 3 e la regressione del livello 4-5. Il grafico (come quello della figura 8) è realizzato allo scopo di porre in evidenza le tendenze in corso in tre fasce d’età di riferimento: la più anziana, a partire dalla quale sono calcolati i numeri indice, è quella tra i 56 e i 65 anni; la fascia intermedia comprende la popolazione tra i 36 e i 45 anni; infine, la fascia più giovane riguarda la popolazione tra i 16 e i 25 anni. È evidente che la fascia che presenta valori di letteratismo più positivi è quella intermedia, in cui i numeri indice sono in flessione per i livelli 1 e 2 (quelli inferiori) della scala di letteratismo, mentre sono in ascesa per i livelli 3 e 4-5. Il segno del cambiamento di tendenza è dato dalla forte flessione nella popolazione più giovane del livello 4-5 (che corrisponde ad una più elevata competenza alfabetica), e dalla stagnazione del livello 3.
Figura 8. Evoluzione del letteratismo nella popolazione italiana. È interessante osservare che le due posizioni positive della scala (3 e 4-5) sono in ascesa costante passando dalla generazione più anziana a quella intermedia, e da questa a quella più giovane. Nella popolazione italiana la tendenza all’incremento dei livelli di letteratismo dalla fascia 56-65 anni a quelle più giovani è costante, come mostrano i numeri indice in ascesa per i livelli 3 e 4-5. Semmai, può dar luogo a perplessità il fatto che il livello 3 appaia assai meno dinamico del livello 4-5: potrebbe essere un segno che, nonostante le differenze collegate alla diversa condizione di partenza, in Italia si stia manifestando nelle fasce di popolazione più giovane, anche se per ora in misura modesta, la medesima tendenza regressiva rilevata per gli Stati Uniti.